Fin dal titolo è evidente come la sua attenzione si sia soffermata sugli ultimi
anni del boss mafioso Tommaso Buscetta, durante i quali collabora con la
giustizia svelando l’orripilante volto di “cosa nostra”.
Nonostante la ricostruzione fedele dell’estradizione e del processo, Bellocchio ci presenta, attraverso un racconto lucido e mai banale, un caso “umano” più che un caso giudiziario. Scava in quell’umanità che l’organizzazione mafiosa, a cui con una certa fierezza don Masino ammette di appartenere ancora, non ha cancellato del tutto.
Respiriamo con lui l’ansia di una vita sempre vigile, edulcorata dalla bellezza estiva del Brasile.
Il ritmo appare sostenuto, almeno nella parte che precede le fasi del maxi processo. Bellocchio non ci nasconde nulla, ci catapulta nella realtà della cosa nostra di quegli anni attraverso i suoni allegri di una festa “famigliare” in onore di Santa Rosalia e dà subito uno schiaffo allo spettatore: il fisico e l’animo martoriato del giovane figlio di Buscetta, Benedetto, consumato dall’eroina, esempio di tutte quelle vittime che mieteva in quegli anni la mafia attraverso il traffico e lo spaccio di stupefacenti, filo conduttore della guerra tra famiglie e che attraversa tutto il film.
Una guerra macchiata da fiumi di sangue, che scorrono rapidi come i numeri delle vittime sullo schermo.
Del resto è tutto “teatro” il finto accordo tra famiglie per il controllo dei traffici, ma il dramma è solo all’inizio. Il protagonista, assieme a coloro che accusa sembrano costantemente impegnati nella recita di un copione. Dopo l’estradizione e le confessioni fatte unicamente a Giovanni Falcone, il tribunale è il luogo performativo per eccellenza, in cui tutti gli imputati danno il via al loro show. In questo caso la riproduzione della realtà da parte degli attori è fedelissima; una menzione merita Fabrizio Ferracane nei panni di Pippo Calò a confronto con Buscetta, candidato come miglior attore non protagonista ai David di Donatello 2020 e già vincitore del nastro d'argento.
La prova attoriale di Favino è magistrale, il trasformismo, con cui ci ha già deliziato in precedenza (Gino Bartali-L’intramontabile) e che ha riportato in Hammamet di Gianni Amelio, si può dire sia secondo solo a quello del vero Buscetta, che per anni ha cercato di cambiare il suo volto. Favino ne riproduce le gestualità e soprattutto la voce e l’accento contaminato dagli anni brasiliani. Inevitabile è l’effetto di “fascinazione del male” per la platea che Bellocchio aveva realizzato in parte con “Vincere”. Eppure Buscetta non diventa mai Tommaso per lo spettatore, nonostante la portata del suo gesto, resta sempre un criminale. Buscetta il “boss dei due mondi”, che continua idealmente la sua spola pedalando da un lato all’altro di un corridoio anelando a quella libertà che per lui è sempre stata più importante del potere.
Sebbene l’opera rallenti il ritmo nella seconda parte, conseguenza del respiro seriale pensato inizialmente dal regista, non perde mai potenza espressiva.
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